Solidarietà col piagnisteo dei mediatori

In questi giorni di "lutto" per la dipartita della compianta obbligatorietà nel procedimento di mediazione civile, si sprecano i lamenti e i piagnistei dei mediatori che, sui vari social network e sulla rete in genere, postano le loro lagnanze, annunciando anacronistiche "marce su Roma", agguerrite class action, nella speranza che un parlamento (in ben altre faccende -ahinoi- affaccendato), si prodighi per resuscitare il cadaverino, visto che, nonostante non si conoscano ancora le ragioni della Corte, l'eccesso di delega incriminato sembrerebbe poter essere sanato -appunto- dal corpo legislativo del nostro Stato. 

Non voglio tornare sui significati della decisione della Corte e sulle sue implicazioni (che ho già avuto modo di esprimere nell'articolo "Mediazione senza obbligazione: viva la mediazione"), bensì, dopo aver espresso il mio cordoglio e la mia solidarietà ai colleghi mediatori che si sentono giustamente derubati, riflettere su questo collettivo piagnisteo che, a mio avviso, la dice lunga sulla fatica di una sana cultura della mediazione a diffondersi nel nostro paese. 

Alla base di questo mugugnare credo si debba leggere la stessa incongruenza che si respira nel d.lgs. 28/2010, una legge che, d'altronde (come scrivevo nell'articolo "Mediazione poco civile, molto commerciale"), è stata ed è propedeutica alla definizione della mentalità di gran parte degli attuali mediatori italiani di cui la stessa legge ha determinato la formazione. Poteva dunque essere altrimenti? 

Una legge che vorrebbe favorire la mediazione ma che si presenta zeppa di contraddizioni rispetto ai significati profondi della mediazione, a partire da come ha predisposto e predispone la formazione dei suoi esegeti, poteva partorire mediatori che non fossero a loro volta contraddittori e che, nel loro agire (prima vera risorsa per il diffondersi di una cultura della mediazione) finissero per arrecare più danni che benefici? 

Si pensi, se vogliamo aggiungere carne al fuoco (oltre la carne della qui discussa obbligatorietà), alla paradossale possibilità della proposta (art. 11) che trasforma il mediatore civile in un sorta di piccolo giudice, attribuendogli poteri decisionali che nulla hanno a che fare con l'istituito della mediazione; se poi insieme a questo mettiamo le possibili sanzioni (art. 13) in cui incorrono le parti laddove rifiutino la proposta del mediatore, allora dovrebbe apparire a tutti evidente (ma forse è un evidenza di sola mia illusione) la distanza tra mediare e questa cosa che è chiamata mediazione ma che mediazione non è, e che, invece, appare più simile al tentativo di ri-mediare, col solito pasticcio all'italiana, tra le direttive della Comunità Europea (2008/52/CE) e la necessità di sgombrare gli scranni della giustizia nostrana tanto colmi di liti da essere divenuti veri e propri dispensatori di ingiustizia. 

Ma per queste profonde contraddizioni insite in questa mediazione spaghettara, i colleghi mediatori che ora piagnucolano perché gli hanno, almeno temporaneamente, storpiato il giochino, non hanno sollevato le loro lamentazioni. 

E' finora mancato, cioè, quel sano processo culturale che è l'unica sola vera strada affinché questa modalità alternativa di disciplinare non la giustizia (come erroneamente da troppe parti si crede e si dice), ma il conflitto, penetri negli usi, nei costumi e nella mentalità del cittadino italiano. Il venir meno dell'obbligatorietà, nulla evira alle potenzialità "rivoluzionarie" della mediazione, anzi; e sarebbe assai paradossale che fosse un obbligo di legge a promuovere la diffusione di una disciplina che si connota proprio per la volontà di non subordinare il sapere delle persone a qualsivoglia altro sapere, in questo caso giuridico, ma non solo. 

Comprendo, evidentemente, il fastidio e, voglio ribadirlo, sono assolutamente solidale con il senso di ingiustizia che vivono i tanti neo-mediatori che, dopo aver speso tempo, denaro e fatica per imparare a giocare a briscola col morto, si trovano improvvisamente catapultati al tavolo da poker senza sapere che farsene delle carte da briscola e soprattutto del morto. 

Ma questo pastrocchio non è solo il segnale di una legge sulla mediazione che va totalmente ripensata, ma anche il segnale, ben più importante, di un generale rapporto con la Legge che va ripensato e di cui la mediazione per sua natura si fa carico emergendo, non a caso, in questo nostro scorcio di secolo in cui un po' tutte le discipline che fino a ieri dispensavano verità sono, in differenti modi, messe in discussione a favore di un ritorno all'incontro con la persona e alla relazione come indispensabile contributo per la costruzione non della verità, ma di quella verità che nel finito contesto di quella relazione può aiutare a generare un qualche tipi di positiva, costruttiva e collettiva evoluzione.

Mediatori e fans della mediazione approfittino dunque di questa ennesima caduta verticale della giustizia che la Legge, in una società sempre più complessa, non è più evidentemente in grado di garantire, per favorire la diffusione di quello che, alla nascita di questo stesso blog, ho definito "Diritto di relazione": prodigandosi per diffondere un vero e proprio salto culturale affinché ogni individuo si riappropri (accompagnato da adeguati dispositivi come quello della mediazione) della cura della giustizia, propria e altrui, che significa, anzitutto, imparare ad aprirsi alla legge-sapere dell’Altro per offrire la propria legge-sapere, abbandonandosi a questo rapporto dialogico che è l'unica via di accesso al superamento dell’esperienza dell’ingiustizia, superamento che solo si dà a partire dalla consapevolezza che nessuno (nessuno!) ha la piena ed esclusiva disponibilità della «Legge» ma che questa va continuamente ricercata e ridefinita con l’Altro, confrontandosi apertamente e positivamente in quello spazio tutto da riempire che non sono «Io» e non sei «Tu» e che, comprendendoci, al contempo, ci unisce e ci separa e che, affinché divenga luogo di cura e di un sano e costruttivo conflitto, deve essere continuamente rinegoziato.

Mediazione Senza Obbligazione - Viva la Mediazione

Con questa riflessione voglio proseguire il mio critico itinerare attorno al mondo della mediazione civile avviato con l'articolo "Mediazione poco civile, molto commerciale". Un ultimo, per ora, paragrafo, che non poteva certo mancare dopo la dichiarazione di illegittimità della Corte costituzionale limitatamente alla parte del decreto in cui era previsto il carattere obbligatorio della mediazione stessa. 

Tutti i fans della mediazione che, come me, vedevano una esplicita contraddizione in questo obbligo che stride con il senso profondo del mediare, ora avranno di che gioire ma... ma... fino a un certo punto, poiché come sempre le cose sono più complesse di quelle che appaiono. 

Infatti, in una situazione di transizione come quella italiana, in cui la mediazione si presenta come una novità osteggiata da buona parte del mondo giuridico, è riduttivo pensare alla questione dell'obbligatorietà esclusivamente per quel che concerne l'imposizione alle parti del tentativo di mediazione come condizione di procedibilità del giudizio.

Questa obbligatorietà andava forse pensata tanto più come sprono culturale, in primo luogo al mondo degli avvocati, che dovevano (a questo punto l'imperfetto è -questo sì- d'obbligo), all'atto del conferimento dell'incarico, informare l'assistito su questa modalità alternativa di affrontare le controversie, poiché, in questa costrizione, si poteva agitare un possibile volano in grado di promuovere la mediazione. 

Ciò detto, dobbiamo riflettere sul fatto che, obbligo nonostante, i dati del ministero (marzo 2012) ci parlano di un bel 70% di mediazioni andate a male perché una delle parti non si è presentata, il che significa almeno due cose... 

La prima è che, se tanto mi dà tanto, ora, senza obbligatorietà, quel 70% è destinato ad aumentare esponenzialmente, mandando a carte a quarantotto la mediazione stessa. 

La seconda è che di questo obbligo parti coinvolte, avvocati e fors'anche giudici, se ne sono bellamente fregati, il che, oltre a interrogarci una volta in più sul senso della legalità che si respira nel nostro martoriato paese, ci deve far pensare che la strada dell'obbligo non era forse quella più adeguata. 

In questo scenario, noi mediatori che siamo abituati non solo a vedere il bicchiere sempre mezzo pieno, ma ad averlo anche sempre mezzo pieno (sfruttando i suoi effluvi alcolici per immaginare soluzioni positive non prefigurate) abbiamo tuttavia l'obbligo di pensare una terza via che ci riporti a vivere la mediazione come processo culturale profondo in una società che sposa o rinnega il conflitto ma ancora fatica (e molto) a viverlo nella sua veste costruttiva. 

Si colga allora la sentenza della Corte come sprono che, da una parte, eliminerà tanti furbetti (vedi sempre articolo) che, con le loro pratiche, non contribuiscono certo a valorizzare la mediazione (anche se adesso avranno un bel po' di pive nel sacco da contare -per altro gli va ancora bene visto che si approssima il Natale e la regalistica si impone) e che, dall'altra, dovrebbe invece incentivare i nostri sforzi per promuovere una "cultura della mediazione" in grado di penetrare la società nei suoi agiti profondi, a prescindere da leggi e decreti che per altro, come ben sappiamo, non pertengono strettamente al mediare.


La Mediazione Coniugale al World Mediation Forum (Valencia 2012)

Pubblichiamo la sintesi dell'intervento di Massimo Silvano Galli al World Mediation Forum tenutosi a Valencia lo scorso fine settimana (18/21 ottobre 2012), in cui si teorizza il concetto di Mediazione Coniugale.

La mediazione coniugale è un percorso ideato per affrontare la crisi della coppia in ottica riparativa, ma anche per anticiparla e prevenirla, sollecitando ogni suo protagonista a riconoscere la propria storia con rispetto e consapevolezza di sé e dell’Altro. Un percorso che aiuta la coppia a comprendere i comportamenti distonici che emergono nelle relazioni amorose, per poi procedere alla loro rivisitazione critica e alla loro ristrutturazione, senza evadere dai tòpoi della mediazione: il conflitto, la comunicazione, la relazione.

Non si tratta, però, di tentare, semplicemente, una ricongiunzione, bensì di affrontare una possibile evoluzione: generando cambiamenti, trasformazioni positive, affinando la capacità dei singoli e della diade di conferire senso e valore al proprio mondo, sollecitando la consapevolezza del proprio specifico e ineliminabile contributo nella costruzione della realtà e sviluppando, al contempo, la capacità di mediare con l’Altro e con le sue interpretazioni del mondo.

Sempre più spesso chi opera nei contesti di mediazione familiare, avverte la necessità di poter governare il processo di mediazione affrancato dalle rigide strutture di un’impostazione che vorrebbe il mediatore familiare vincolato ad accompagnare le parti solo negli articolati passaggi della separazione o del divorzio. La mediazione coniugale si apre, invece, alla possibilità della riconciliazione, aiutando i partner a ritrovarsi in una dimensione comunicativa più trasparente e coinvolgente, ristrutturando il conflitto in ottica costruttiva, riscoprendo il senso, la bellezza e l'importanza di una gestione consapevole, responsabile e progettuale dello stare insieme come, laddove vi sono dei figli, di una genitorialità completa e condivisa.

Tuttavia, la differenza tra mediazione familiare e mediazione coniugale non si connota riduttivamente nel fatto che una è chiamata a dividere e l’altra ad unire, ma che una può accontentarsi di un buon accordo e l’altra non può fare a meno di generare un cambiamento, una trasformazione. Il senso della ri-congiunzione cui questa mediazione aspira, non va quindi letto unicamente come una ripresa più adeguata della convivenza, ma come la capacità del mediatore di coniugare (appunto) le istanze profonde del singolo partner con le esigenze della coppia.

Per questo, il mediatore coniugale, oltre alle tecniche specifiche della mediazione atte a governare il conflitto e a riaprire la comunicazione, è anzitutto un esperto delle cose dell’amore, poiché la mediazione coniugale è fondamentalmente un processo pervaso dall'idea dell’amore, inteso (al di là di ogni melensa configurazione) quale esercizio a fare bene, a farsi del bene, a ricercare il proprio ben-essere, dove il mediatore coniugale veste i panni di un vera e propria guida capace di aiutare le parti a ri-conoscere il proprio reciproco ben-essere, imparando il modo migliore per costruirlo con l'Altro.

Questo essere esperto nelle “cose dell’amore” al di là di ogni specificità tecnica, rappresenta il vero iato tra la mediazione familiare e questa nuova impostazione -anche, e forse soprattutto, dal punto di vista della formazione che risulta spesso incomprensibilmente avulsa dalle conoscenze dell’amore e, soprattutto, dell’amore contemporaneo, impropriamente sostituito da riflessioni e teorie sulle fasi della vita della coppia e della famiglia che altra cosa sono e che per altro rispondono solo parzialmente e per lo più psicologicamente ai tanti perché che la tematica impone.

Il tempo e lo spazio non ci consentono qui di affrontare come meriterebbe questa riflessione sull'amore contemporaneo tanto importante per il mediatore coniugale. Accenniamo solo, a titolo esemplificativo, uno dei temi che tanto dovrebbero interrogare anche il mediatore familiare: ossia la rivisitazione critica della grande conquista del divorzio che, alla fioca luce dell’amore liquido, così Zygmunt Bauman ha definito le relazioni di coppia del nostro tempo, sembra essersi trasformata fin troppo velocemente in una sconfitta a cui si ricorre più per aver smarrito le coordinate dell’amore che per aver smarrito le coordinate dell’amato.

Sembra proprio che, in assenza di adeguati percorsi educativi capaci di accompagnare bambini e ragazzi a comprendere le contemporanee configurazioni dell’amore, la relazione di coppia, conquistata la possibilità di sciogliersi dai suoi vincoli sociali, invece di nutrirsi di nuove opportunità capaci di consolidare lo spazio del “noi”, si è aggrappata alle ondivaghe esigenze dell'io, preda delle stesse mareggiate di precaria identità connotata da una fragilità tanto estrema che, come mai prima d’ora, le separazioni hanno di fatto superato le unioni.

Lo spazio della mediazione coniugale si presta allora a divenire il luogo della cura dell’amore, in un tempo in cui le relazioni amorose sembrano non tenere il passo della stabilità. Un aiuto che non necessariamente deve passare da percorsi terapeutici, come troppo spesso il luogo comune vorrebbe, ma che può trovare soluzione e conforto proprio in esplorazioni meno invasive come la mediazione, con la sua capacità, in primo luogo, di guardare al futuro senza necessariamente risolvere tutti i problemi del passato: regolando i modelli comunicativi tra i partner e riconfigurando costruttivamente e positivamente la loro capacità di gestire e promuovere un sano conflitto evolutivo.

Non si tratta, è bene sottolinearlo, di una posizione ideologica, votata all’idea della coppia come soggetto indissolubile, né mossa da qualsivoglia criticità verso l’istituto del divorzio; bensì di uno strumento che, nella complessità della gestione degli amori contemporanei, si offre laicamente alla coppia in crisi, come pure alla coppia che desidera darsi la possibilità di prevenire la crisi.

Il mediatore coniugale non fornisce dunque ricette solutive, ma si propone alla coppia in crisi, come alla coppia che la crisi la vuole prevenire, quale possibile aiuto affinché i partner imparino a individuare e genere i ri-medi più efficaci non solo per sopperire alla crisi ma, soprattutto, per generare il loro benessere, fosse anche la scoperta che quel benessere deve necessariamente passare da una separazione.

Ciò significa che questi ri-medi non hanno e non vogliono avere nessuna pretesa diagnostica o prognostica né, tantomeno, prescrittiva. La mediazione coniugale che sostiene questo intervento si distanzia, infatti, dalle pratiche della scienza positivista proprio perché non tratta le persone come oggetti di indagine, ma come soggetti che differiscono dagli oggetti per la loro irriducibile univocità, per la loro capacità di saper riflettere su di sé, per la loro abilità nel collaborare alla diagnosi dei “problemi” che li attanagliano e nel produrre quella conoscenza necessaria a risolverli.

Si tratta di un approccio fortemente situazionista, i cui interventi e le cui strategie non si fondano sulla ripetizione delle relazioni osservate in precedenza, ma sul contesto e sui soggetti che, per loro natura, differiscono ogni volta.

Scopo dell’intervento è risolvere un disagio che gli stessi soggetti partecipanti hanno contribuito a definire, essendo loro i soli detentori delle principali risorse che porteranno o meno a qualche soluzione. Un paradigma da cui, evidentemente, è assente qualsiasi etichettatura tesa a evidenziare disturbi o patologie e persino tassonomie che svierebbero il mandato del mediatore coniugale; insomma un modello che non è interpretativo ma dis-piegativo di quella materialità esistenziale che contestualizza e dà senso all’oggetto in esame permettendo di cogliere la pienezza dell’esperienza che produce e di interrogandosi sulla capacità/possibilità delle parti di dar vita al cambiamento, partendo dal riconoscimento delle potenzialità, latenti o manifeste, attraverso le quali affrontare, a partire dal contesto, la crisi o, in ottica preventiva, le possibili condizioni che scatenano la crisi.

L’azione di mediazione è qui dunque intesa, anzitutto come capacità del mediatore di sagomarsi alla realtà data, aiutando le parti a comprendere la realtà della crisi, facendo perno sulle loro risorse per superarla positivamente.
Sono parte caratterizzante di questo approccio alcuni presupposti che favoriscono l’efficacia dell’intervento come, l’abbiamo già accennate ma è bene ribadirle:
  • approcciarsi alle parti in un’ottica maieutica affinché le soluzioni proposte e validate siano il frutto di una scoperta e di una consapevolezza maturata autonomamente nel confronto, e non l’esercizio di consigli e buone pratiche tratte da qualche “ricettario del mediatore”;
  • accompagnare le parti a prendere consapevolezza del processo attraverso il quale ognuna di esse percepisce, assimila, investe e svuota di senso le proprie condizioni esistenziali dando il proprio contributo alla costruzione di un personalissimo modello di interpretazione e di azione sul mondo;
  • lavorare alla conquista di una nuova autonomia dei soggetti coinvolti, affinché riconquistino fiducia in se stessi, modifichino positivamente gli eventuali atteggiamenti aggressivi o sottomissivi e si dispongano nella migliore condizione per scoprire nuove opportunità di determinarsi;
  • e, infine, ma non per ultimo, procedere lungo questi sentieri avvalendosi delle opportunità di conoscenza, di progettualità e di azione provenienti da tutte le forme e le espressioni della cultura umana, pensando alla mediazione coniugale come ad un contenitore dinamico dove i saperi tutti possono essere canalizzati per cogliere uno stesso oggetto da più punti di vista, svelando la moltitudine di verità che lo determinano e le possibilità tras-formative che cela, abbracciando e riconoscendo così la complessità di ogni storia d’amore e degli sguardi multidisciplinari necessari a comprenderla.
Tale borderò, lungi dal voler promuovere qualsiasi lettura meccanicistica della mediazione coniugale, vuole ribadire invece la necessaria complessità di questo approccio, dettata anzitutto dalla fase di confusa transizione in cui siamo immersi dove l'amore annaspa in mezzo a un guado: trascinato da una parte dalle correnti del passato che hanno nutrito e nutrono un'idea dell'amore che, dall'altra parte, le correnti del presente faticano a capire e contemplare.

Ed è a partire da questa confusione (che sempre emerge sulla scena della mediazione familiare) che si fa largo, la necessità di una "pedagogia dell’amore di coppia" che accompagni la mediazione coniugale non solo nell'affrontare la "crisi d'amore" ma anche, è importante ridirlo: per anticiparla, prevenirla e, potenzialmente, per fare davvero di ogni amore una storia vissuta, fino in fondo ai suoi confini e oltre i suoi confini, con pienezza, rispetto, consapevolezza, ossia con quella partecipazione capace di generare un produttivo benessere evolutivo per ognuno degli attori che vi sono coinvolti -ivi compresi gli eventuali minori.

Obiettivo di questa pedagogia dell’amore di coppia non è, dunque, quello di muovere riflessioni o escogitare strategie affinché le coppie non si separino o stiano insieme il più a lungo possibile, bensì che ogni coppia e i suoi singoli componenti trovino il modo migliore per vivere la relazione amorosa quale continua occasione di crescita, generatrice di felicità potenziali.

Mediazione poco Civile... molto Commerciale


A un anno e passa di distanza dalla sua nascita, mi piace qui tirare alcune prime personali somme su questa sorellina storpia della mediazione: la cosiddetta Mediazione Civile e Commerciale che (a mio avviso), per come è nata e sta crescendo e diffondendosi, ben poco sembra avere della mediazione, men che meno di civile, ma molto, molto di commerciale -inteso come sfruttamento non tanto del sano e auspicabile rapporto contendenti-organismo-mediatore che la legge dovrebbe disciplinare, ma come business tutto circoscritto tra organismi, mediatori e aspiranti tali. 

Ma andiamo con ordine... 


1. PROTOGENESI DI UNA MEDIAZIONE 

Appena dopo il parto (sulla cui fecondazione, come accenno nel titolo, tanto ci sarebbe da discutere), è partito il business della formazione che, in poco più di un anno, è arrivato a sfornare pare qualcosa come 160.000 mediatori. 

Fatta questa prima fabbricata, oggi questo business sembra in precipizio, per quanto non ci si esenti dal grattare il fondo del barile cercando di annettere nuove reclute con proposte di corsi a volte davvero raccapriccianti -manca solo di poter diventare mediatori tramite e-mail e poi le abbiamo viste tutte. 

Non che all'inizio del parto le cose andassero assai meglio, con interi percorsi formativi esclusivamente votati all'esegesi del d.lgs. 28/2010  che, anche una volta mandata a memoria, a poco o nulla serve per poter efficacemente mediare. 

Qui sta la prima deficienza della mediazione civile in Italia, che poi si ripercuote sulla diffusione di una sana cultura della mediazione: l'aver formato, un po' in fretta e con molta furia, una gran quantità di mediatori che, di fatto, non sanno mediare (non tutti, per carità! ma tanti -ahinoi- tanti, tanti): imbottiti, in 50 misere ore (che la dicono lunga sull'idea di una professione di cui probabilmente il legislatore non conosce e riconosce la complessità e la difficoltà), di più o meno superflue informazioni giuridiche ma, spesso, troppo spesso, senza aver alcuna idea di cosa sia il conflitto, di quali siano le dinamiche che muovono le relazioni umane e in che modo i molteplici aspetti della comunicazione intervengono a gestire questo complicato intreccio. 

Insomma, con queste premesse non serviva che la mediazione emettesse il suo primo vagito, sarebbe bastato guardare la sua ecografia per intuirne tutte le possibili anomalie e diagnosticare quelle deformazioni che, ad oggi, ad un anno dal parto, si palesano in tutta la loro concretezza -si veda il report del Ministero a marzo 2012 (report di marzo 2012). 

Per carità, è una fase di transizione, la piccola sta crescendo, ma proprio per questo si deve forse fare qualcosa per la sua educazione: ri-formare i mediatori, ad esempio? 


2. DALLA PROTOGENESI ALLA PARTENOGENESI 

Dal business della formazione alla mediazione poco civile e molto commerciale, sono nati, per autofecondazione mi viene da dire, i famosi organismi che dovrebbero disciplinare questo nuovo istituto. 

Questi, dopo, appunto, un processo di fecondazione il più delle volte autoreferenziale, si sono distinti, permettetemi questa semplificazione, in quattro diverse tipologie. 

La prima tipologia è quella degli organismi che, per diverse ragioni, prima fra tutte: aver creduto che la mediazione fosse "subito un business", soldi facili e immediati, si sono chiusi a riccio con diverse formule che, spesso in barba alla forma associativa o, peggio, pubblica che li caratterizza, di fatto hanno impedito (e impediscono) l'accesso agli estranei. 

Molti di questi, ad un anno di distanza, o hanno già chiuso la saracinesca, o si sono ricreduti spostandosi nella seconda o nella terza tipologia. Vediamo dunque queste due altre configurazioni. 

La seconda tipologia è quella degli organismi che hanno tentato (e tentano) di fare profitto sui tanti mediatori che, formatisi, desiderano iniziare a sperimentare le loro conoscenze o, più semplicemente, lavorare, chiedendo tariffe di ingresso finanche "usuraie". Per capirci, da 800 fino anche ai 2500 euro per essere affiliati. 

La terza tipologia è quella che potremmo definire del franchising. 
Si tratta di una formula più recente (delle cui insidie cercheremo di riflettere nel prossimo paragrafo) cui molti organismi stanno adeguandosi nel tentativo di espandere la loro rete commerciale, affiliando sedi secondarie riunite sotto un medesimo marchio, vendendo (spesso agli stessi corsisti che prima hanno formato), la loro capacità commerciale insieme a tante belle promesse (che il tempo ci dirà se sapranno mantenere), promesse tutte chiaramente lautamente pagate. Per capirci, dai 10.000 ai 20.000 euro per entrare nella rete. 

La quarta e ultima categoria è quella che vi auguro di incontrare. 
Si tratta di organismi seri, e ce ne sono, che valuteranno le vostre competenze, magari vi chiederanno anche una quota associativa, ma onesta, che non vi farà urlare allo scandalo. Magari vi chiederanno anche di aprire una filiale nel vostro territorio proponendovi una percentuale sulle mediazioni che vi passeranno (dal 60 all'80%)... 
Insomma, presumendo di aver bisogno di voi e che voi siate una risorsa affinché, anche in quel territorio, vi sia una professionista capace che li rappresenti e con cui fare business non su cui fare business. 


3. ORGANISMI IN EVOLUZIONE: POSITIVE EVOLUTION  

Il terzo passaggio che, a mio parere, si può registrare in questa fase per ora in continua evoluzione, potrebbe essere molto prolifico e promuovente per quel concetto di "cultura della mediazione" che in Italia pare faticare a diffondersi; ma si tratta anche di un passaggio che, al contempo, potrebbe anche correre il rischio di generare una vera e propria catastrofe negativa     Ecco quel che, a mio avviso, sta accadendo.  

Molti organismi sopravvissuti alla prima selezione e oggi, dopo un anno di transizione, più o meno efficacemente strutturati, nella loro necessità di sopravvivenza stanno arrivando alla giusta conclusione che, al di là di aprire filiali, è necessario intraprendere un percorso di visibilità affinché l'organismo sia conosciuto e riconosciuto, visibilità cui si affianca, parimenti, l'adeguata configurazione di una rete di vendita con adeguate strategie di marketing.  

Vengono così reclutati negli organismi quelle figure che, nel mercato dei servizi e delle merci, prendono il nome di "commerciali", di fatto: più o meno abili venditori il cui scopo é rastrellare, in lungo e in largo, diversi selezionati territori con l'obiettivo (target) di vendere il loro prodotto o, in questo caso, servizio.  

Fin qui, nulla di male. Se fatta bene e con l'adeguata conoscenza e attenzione, potrebbe essere uno straordinario strumento di diffusione della mediazione: un benefico plotone addestrato a diffondere questa "nuova" opportunità e, in seno ad ogni tentata vendita, a spiegarne benefici, vantaggi, bontà, facendo da traino anche a forme meno ufficiali di mediazione come quella familiare, scolastica, di quartiere, coniugale, penale, etc.  

Ma, come potete intuire non c'è solo una faccia della luna, soprattutto nel nostro paese in cui già un miracolo che ci sia... la luna.  


4. ORGANISMI IN EVOLUZIONE: NEGATIVE PROSECTIVE  

Nel precedente paragrafo ci siamo soffermati sulla configurazione positiva di alcuni organismi che stanno sguinzagliando per tutta la penisola il loro fidi venditori, il che potrebbe essere per la mediazione, se ben fatto, un evento di grande propagazione e diffusione.  

Ma, ahinoi, non è tutto oro quello che luccica.  

Il problema nasce nel momento in cui, come solito in questo nostro mondo alla deriva, si passa dal business in cui si fa correttamente mercato, al business is business in cui non si guarda più in faccia niente e nessuno e tutto sembra lecito: l'importante è vendere.  

Sparati alla ricerca di un contratto in più, di una convenzione in più, di una mediazione in più, alcuni di questi commerciali (che potrebbero vendere indifferentemente la mediazione come l'ultima merendina nutriente, spesso senza conoscere adeguatamente né l'una né l'altra) a volte finiscono per andare ben oltre i temi della mediazione commerciale proponendo ai potenziali acquirenti l'intero catalogo della mediazione: da quella scolastica a quella familiare, magari passando pure per quella penale o interculturale... insomma, andandosi a infilare in mondi per i quali serve una profonda preparazione.  

Eccolo allora il grande rischio della mediazione: in conformità ad una vergognosa deficienza legislativa che conclama "mediatore" solo colui che si è fatto 50 misere ore di formazione, il più delle volte esclusivamente trastullandosi sull'esegesi della legge (che gli servirà per fare il mediatore come la mitra a fare il Papa), vedremo tutta una serie di mediazioni gestite da figuri di assai dubbia capacità.

Sta a vedere che avevano ragione gli avvocati ostracisti quando dicevano che questa legge (d.lgs. 28/2010fa davvero schifo? 


5. ORGANISMI IN EVOLUZIONE: ORROR VACUI 
 

Sì, forse avevano proprio ragione gli avvocati che, fin dai primi suoi vagiti, hanno dato addosso alla mediazione, seppur con argomenti che, francamente, palesavano più la loro paura di perdere il bottino (non a caso "bottino") che la volontà di difendere il cittadino.  

Avessero avuto la pazienza di aspettare qualche mese, avrebbero visto gli stessi sostenitori della mediazione distruggere la loro creatura e, peggio, compromettere la stessa cultura della mediazione, quantomeno in Italia perché -ahinoi- la sensazione è che il peggio debba ancora venire.

Premetto che, a differenza delle riflessioni su esposte, di cui vi sono ormai evidenti tracce, qui invece azzardo una previsione che sa un po' di pregiudizio e che mai vorrei divenisse una preveggenza. We'll see...

Dunque, dopo aver riposato per un lungo periodo in Commissione Giustizia (precisamente dal 29 luglio 2008), ecco approdare al senato il DDL 957 relativo alle "mdifiche al codice civile e al codice di procedura civile della legge in materia di affidamento condiviso"; disegno che vorrebbe, tra le varie cose, introdurre definitivamente la mediazione familiare quale strumento per disciplinare le ormai numerosissime cause di separazione e divorzio che nella legge sull'affido condiviso (legge n. 54/2006il Parlamento italiano aveva bellamente eliminato, riducendolo la mediazione familiare ad una blanda possibilità di segnalazione da parte del giudice.

Augurandoci chiaramente che il disegno di legge si concreti (con tutti gli opportuni e necessari aggiustamenti che hanno già scatenato un sacco di sterili polemiche), quel che mi fa tremare i polsi è la possibilità che queste mediazioni familiari vengano disciplinate dai neonati organismi di mediazione civile e commerciale, con tutta la pochezza e la superficialità che su abbiamo narrato.

Non mi stupirei affatto: siamo in Italia. 

Ad oggi sulla nostra penisola ci sono già qualcosa come 800 organismi attivi, per buona parte gestiti da quella categoria (gli avvocati) che se ha protestato per la Mediazione Civile, farà il diavolo a quattro per la Mediazione Familiare, insomma: bisogna accontentare le corporazioni, quale migliore soluzione che affidare agli organismi la gestione delle mediazioni familiari? Sono già passati per il filtro del ministero, sono burocraticamente organizzati, sono dislocati in tutto il territorio... peccato non sappiano fare la mediazione... (non tutti, per carità! ma tanti -ahinoi- tanti, troppi!).

Guardando con orrore nell'immaginario sprofondo, attendiamo che non si compia l'ennesimo scempio. Che la mediazione sia con noi!


Mediare con Arte

Giuseppe Capogrossi (pittore, laureato in giurisprudenza)
Jacopo Savi (avvocato, mediatore) ha dato vita ad un interessante iniziativa sulla rete, un blog dove raccoglie diverse testimonianze di mediatori che riflettono sulla loro modalità di operare e sulla loro vision. Ne emerge un quadro davvero stimolante che restituisce la complessità e la molteplicità di sguardi che determinano questa disciplina. Qui, l'intervista a Massimo Silvano Galli, il sito completo all'indirizzo http://mediationhub.wordpress.com 

Intervistatore: Grazie per la disponibilità, mi dici un po’ la tua esperienza e cosa ti ha portato a fare il mediatore? 

M.S.Galli: Il conflitto. Ho lavorato, e ancora lavoro, con e nel conflitto, in presentia e in assentia; con soggetti, gruppi, famiglie in cui il conflitto, nelle loro relazioni, era materia all’ordine del giorno: nella sua veste esplicita e classicamente distruttiva, come nelle sue forme latenti (spesso le peggiori). La mediazione si è rivelata, anzitutto, come una filosofia dove il conflitto sposa o, almeno a mio avviso, dovrebbe sposare, quella dimensione neutra in cui personalmente lo percepisco, cercando di viverlo nella sua veste di promotore evolutivo delle relazioni. 

Intervistatore: Quale è secondo te l’ambiente, lo spazio ideale per svolgere una mediazione?  

M.S.Galli: Non credo nel setting. Almeno per quel che concerne la mediazione. Penso che il mediatore debba anzitutto accompagnare le parti in un non-luogo, ossia quello spazio dal quale si cerchi il più possibile di lasciare fuori il mondo così come appare: il mondo coi suoi dettami, le sue regole, i suoi codici, le sue coercizioni, i suoi dogmi, per aiutarle a cercare dentro di loro, e rispetto alla specificità della loro relazione, le leggi più adeguate per disciplinare il conflitto che stanno vivendo, trasformandolo da distruttivo a costruttivo. In questo senso, la mediazione può essere intesa come un’utopia, un u-topos, un senza luogo che proprio nel non-luogo che il mediatore allestisce può trovare dimora. Da qui in poi è chiaro che assume un senso del tutto secondario il concetto di setting. Il setting è il mediatore. 

Intervistatore: Ma avrai una tua stanza specifica per svolgere le mediazione, no? Come l’hai strutturata? 

M.S.Galli: Be’, se la stanza è il mediatore, sarà fondamentale che lui per primo creda e incarni questo non-luogo. Poi certo, nella stanza che mi capita di usare abitualmente, ci sono cose fisiche e concrete: libri, cd musicali, pennarelli, fogli dove poter scrivere e disegnare, giochi di varia tipologia, immagini, riproduzioni di opere d’arte, riviste da ritagliare, insomma tutto quello che può servire per aiutare le parti a entrare in questo non-luogo, la cui porta di ingresso, è bene sottolinearlo, bascula cercando perennemente un equilibrio, tra logica e fantasia, realtà e immaginario, intuizione e ragione… Per questo si tratta di materiali che, prima di averli a disposizione fisicamente, il mediatore dovrebbe anzitutto averli dentro di sé. È il motivo per cui, tra un qualsivoglia saggio o manuale sulla mediazione e un buon libro di poesia, narrativa, una mostra d’arte, un concerto, uno spettacolo teatrale, il mediatore dovrebbe sempre scegliere uno di questi ultimi, perché sarà tanto più formativo e foriero di stimoli per aiutare le prossime persone che gli capiterà di mediare. 

Intervistatore: Ti siedi sempre nello stesso posto, o lasci la libertà alle parti di sedersi dove preferiscono per poi decidere dove metterti? 

M.S.Galli: Mi siedo vicino al mio bloc-notes: la lavagna a fogli mobili. Quindi, davanti a me, dispongo le sedie delle parti in modo da formare il classico triangolo equilatero e avendo cura che, tra tutte le postazioni, via sia una distanza non superiore al metroeventi e non inferiore ai quarantacinque centimetri, senza alcuna barriera, tavolo o simili, tra me e loro. Ecco, per tornare al setting, forse questo è il mio setting per la mediazione.
Intervistatore: Come mai hai scelto tale modalità? 

M.S.Galli: La presenza della lavagna a fogli mobili o, comunque, di un supporto che dia la possibilità di prendere appunti pubblici, visibili a tutti i partecipanti, ritengo sia davvero fondamentale. Il mediatore, infatti, non prende appunti per sé, ma per un motivo essenziale: il suo scopo non è capire, ma fare capire. C’è un’enorme differenza. Ogni tentativo di comprendere, che l’appunto personale denuncia, comporta un qualche tipo di interpretazione cui consegue qualche tipo di indicazione o ricetta, ma questa non è mediazione. Il mediatore non fornisce ricette solutive, aiuta le parti a crearle, attraverso loro interpretazioni e loro attribuzioni di senso. Per questo credo che la scena della mediazione, prima di ogni altra cosa, sia una scena prettamente pedagogica in cui il mediatore, in perfetto assetto maieutico, accompagna le parti a capire utilizzando i modelli di comprensione e il sapere che le parti stesse gli mettono a disposizione. La disposizione delle sedie, l’assenza di un tavolo, la giusta vicinanza tra tutti gli attori della mediazione, rispondono invece alla volontà, qui così simbolicamente espressa, di rendere il più possibile simmetrici i rapporti di potere che naturalmente si instaurano in qualsivoglia relazione dove qualcuno chiede aiuto e qualcun’altro può potenzialmente offrirlo, cercando al contempo di dare il giusto e importante spazio alla parola inarticolata dei corpi, la cui importanza è decisamente sottovalutata in mediazione. 

Intervistatore: Come ti prepari per affrontare una mediazione? 

M.S.Galli: Non mi preparerò. Ogni preparazione, di fatto, anticipa e traduce la volontà delle parti in schemi preordinati. La scena della mediazione, invece, andrebbe contaminata il meno possibile con le pre-comprensioni del mediatore cosicché si abbassi anche il rischio che divengano pre-giudizi; questo significa che il mediatore dovrebbe avere un approccio ingenuo e il più possibile senza sapere. Per questo, anche nella mediazione commerciale, sarebbe meglio non anticipare l’incontro delle parti con la lettura di qualsivoglia documentazione o, se proprio necessario, leggerla e dimenticarsene subito dopo. Come diceva, credo Platone, il problema del testo scritto è che non può rispondere. 

Intervistatore: Come e quando individui la strategia come mediatore? Come, se accade, la modifichi in corso d’opera? 

M.S.Galli: Il mediatore, almeno nella mia personale concezione, lavora con il materiale linguistico, simbolico e narrativo che gli portano le parti. Le sue strategie, le sue tecniche, i suoi strumenti e dispositivi, non possono essere preconfigurati, ma partono da quel materiale e si modificano ogni volta che quel materiale muta e quel materiale muta proprio perché il mediatore se ne fa carico e comincia a trattarlo, a sgrezzarlo, a raffinarlo con le sue tecniche, le sue strategie, i suoi strumenti, i suoi dispositivi. È in questo circolo virtuoso, in questa ragnatela, che il conflitto viene catturato per trasformare quella cosa informe, sporca, incomprensibile, rabbiosa, in un oggetto di senso, un oggetto comprensibile da parte di tutti gli attori coinvolti nella mediazione. 

Intervistatore: Hai dei personali “rituali” preparatori o che fai durante la mediazione? 

M.S.Galli: Se intendiamo come rituale non qualcosa di scaramantico, ma una scena che si ripete, più o meno costantemente e più o meno nel medesimo modo; sì, ce l’ho. Si tratta di una vera a propria strategia che mi gioco nelle prime battute in cui la mediazione prende abbrivo, prima che le parti inizino a parlare. È il discorso che il mediatore fa alle parti, un discorso fondamentale che dà subito un’impronta precisa alla mediazione, che tesse una vera e propria ragnatela per attrarre e catturare le parti. Come negli scacchi, anche in mediazione, le prime mosse sono non solo di un’importanza vitale, ma anche le uniche realmente programmabili, poi, dalla quarta, quinta mossa in poi le variabili diventano tanto numerose da non poterle più prevedere, anzi, almeno in mediazione, da rendere controproducente ogni previsione. È perciò determinante che proprio nel discorso iniziale il mediatore inizi a tessere la sua trama e i suoi orditi tra le cui maglie le parti cominciano a intuire, vedere, assaporare, respirare l’utopia che (se vogliono) li potrà catturare. 

Intervistatore: In quasi tutte le mediazioni c’è un momento di impasse, tu come lo affronti? 

M.S.Galli: Be’ direi che faccio molto di più che affrontarlo: lo provoco, lo cerco, lo stimolo, faccio in modo (o almeno ci provo) che le parti entrino in questa condizione di blocco, poiché proprio quel blocco è il primo segnale del cambiamento e del buon lavoro del mediatore. Il mediatore deve anzitutto spezzare l’equilibrio inadeguato che le parti hanno generato cercando di gestire la loro relazione, poiché spezzare quell’equilibrio è l’unico modo per crearne uno nuovo più adeguato. Il blocco, l’impasse, il non saper che fare, il silenzio, stanno a significare che quella strada che, fino a quel momento, hanno percorso da soli, a testa basta, credendo fosse l’unica possibile, ora si è interrotta. Il mediatore, con le sue tecniche, vi ha eretto un muro, uno o più ostacoli che costringono le parti a fermarsi, a tentare di superarli, di aggirarli, fino a quando, a un certo punto, se la mediazione funziona, ecco che ce la fanno: superano il muro, gli ostacoli e, guarda un po’, la gran parte delle volete ce la fanno proprio perché, superando gli ostacoli, incontrano la strada dell’Altro. 

Intervistatore: Che capacità dovrebbe possedere un Mediatore? 

M.S.Galli: È una domanda che meriterebbe molto più spazio di quanto non abbiamo. Facciamo così, le elenco senza spiegarle e ognuno le legga come crede. Allora, a mio avviso, il mediatore deve essere, anzitutto, un operatore logico-creativo, capace di dare ordine alla confusività che regna nella testa delle parti e di stimolare opzioni alternative a quelle improduttive che li hanno condotti fino lì. Poi deve essere un fingitore: sia in quanto attore, sia inteso come colui che trasforma. Quindi deve essere, almeno nel suo studio, il più irriducibile dei relativisti. Infine, deve osare, deve provocare l’utopia e, giocare e saper sbagliare e, per farlo, deve anzitutto sbarazzarsi di qualsivoglia trucco o appendice che favorisca le sue sicurezze. 

Intervistatore: Visto che i guadagni sono magri, cosa ti spinge ad affrontare ogni mediazione? 

M.S.Galli: Chi ha detto che i guadagni sono magri? Se non confiniamo la mediazione al semplice disciplinare una lite tra due condomini, piuttosto che una crisi matrimoniale, un conflitto scolastico o lavorativo, ma cominciamo a comprenderla nella sua totalità, se ne afferriamo l’aspetto fondante di ogni relazione umana, i margini di intervento sono infiniti. Se poi vogliano fare i romantici, c’è un valore aggiunto che ogni mediazione restituisce: le storie. Le storie degli uomini che la mediazione riunisce (anche nel senso di “rimette insieme”, di “rinarrare”, tessendo nuove trame e nuovi orditi in cui riconoscere un senso comune) con tutta la loro carica di vitalità spesso, ahìnoi, così trascurata e malriposta in questo nostro tempo che pare aver dimenticato quanto l’umano sia un animale in cui carne e storia si con-fondono contendendosi il primato del “chi sono”. 

Intervistatore: Vi sono, chiamiamoli “valori” cui ti ispiri per affrontare le mediazioni? 

M.S.Galli: Diciamo che il mediatore, quale soggetto neutrale (o che si sforza di essere neutrale) non dovrebbe avere alcun valore. Egli, semmai, è una specie di camaleonte che abbraccia e fa suoi i valori delle parti che a lui si rivolgono. Si pensi a quali danni fanno quei mediatori il cui valore è la giustizia, per dire uno dei fraintendimenti più comuni sul ruolo del mediatore. Qual’è è la giustizia in cui credono? La loro? Come la disciplinano? Aiuto! No, il mediatore, semmai, è un generatore di valori, quei valori che si creano quando due sguardi con desideri diversi (le parti) si incontrano e devono far copulare, per così dire, i loro desideri affinché ne nasca uno nuovo che li rappresenti entrambi. Il mediatore, cupido, aiuta questi due sguardi ad incontrarsi e a fondersi, affinché ne discenda un terzo meticcio, il più possibile sano e portatore di benessere: quella cosa che qualcuno chiama riduttivamente “accordo”. 

Intervistatore: Sempre rimanendo nei “valori”, ne individui alcuni specifici della Mediazione? 


M.S.Galli: A questo punto, parlerei di vision più che di valori. Personalmente, ne individuo due irrinunciabili e propedeutici a quell’approccio alla mediazione il più possibile scevro da pre-comprensioni e pre-giudizi: una concezione del conflitto come elemento evolutivo di ogni forma vivente e, quindi, non da sconfiggere o, peggio, da evitare ma, semmai, dai ricercare, lavorando per soppiantare ogni sua forma distruttiva con configurazioni costruttive e generative e, al contempo, una posizione equidistante o, meglio, equivicina a qualsivoglia concetto di verità, comprese quelle verità non ancora formulate. Senza queste due vision credo sia impossibile fare mediazione. 

Intervistatore: Quale è la tua “mission” personale? 

M.S.Galli: Nel mio studio di mediatore, come nella mia vita privata, nei miei incontri, durante le mie lezioni, nelle mie relazioni personali, provo a diffondere una cultura della mediazione che vada oltre i singoli particolarismi cui può essere applicata e oltre le sue, per altro opportune, speculazioni professionali. 

Intervistatore: Ora passiamo ad una domanda un po’ particolare. Vorrei che, senza pensarci troppo, mi definissi la mediazione con un simbolo, e con un altro mi indicassi il tuo essere mediatore. 

M.S.Galli: Giuseppe Capogrossi è uno dei più grandi pittori del Novecento e non solo italiano, ha disegnato per buona parte della sua carriera forme a metà tra ingranaggi, dentiere, specie di dita… Immaginate due mani o, appunto, due ingranaggi che si guardano, si sfiorano dando l’illusione di potersi/volersi incastrare, cosa che a volte quasi succede ma mai totalmente. Infatti, in queste opere, questi oggetti più che altro si osservano, a diverse distanze l’uno dall’altro, segnalando così la potenzialità dell’incastro, dell’incontro, della fusione, che tuttavia mai accade totalmente. Quel che accade, invece, è che tutte queste opere denunciano una bellezza, una relazione, un’armonia e un equilibrio faticosamente raggiunto. Io ho scelto uno di questi segni, di questi incontri promessi quale logo della mia attività che non si esaurisce nella mediazione, ma la contempla nel concetto più generale di relazione. 

Intervistatore: Un commento tuo personale sulla Mediazione, piena libertà di risposta...

M.S.Galli: Abbiamo appena iniziato.