In questi giorni di "lutto" per la dipartita della compianta obbligatorietà nel procedimento di mediazione civile, si sprecano i lamenti e i piagnistei dei mediatori che, sui vari social network e sulla rete in genere, postano le loro lagnanze, annunciando anacronistiche "marce su Roma", agguerrite class action, nella speranza che un parlamento (in ben altre faccende -ahinoi- affaccendato), si prodighi per resuscitare il cadaverino, visto che, nonostante non si conoscano ancora le ragioni della Corte, l'eccesso di delega incriminato sembrerebbe poter essere sanato -appunto- dal corpo legislativo del nostro Stato.
Non voglio tornare sui significati della decisione della Corte e sulle sue implicazioni (che ho già avuto modo di esprimere nell'articolo "Mediazione senza obbligazione: viva la mediazione"), bensì, dopo aver espresso il mio cordoglio e la mia solidarietà ai colleghi mediatori che si sentono giustamente derubati, riflettere su questo collettivo piagnisteo che, a mio avviso, la dice lunga sulla fatica di una sana cultura della mediazione a diffondersi nel nostro paese.
Alla base di questo mugugnare credo si debba leggere la stessa incongruenza che si respira nel d.lgs. 28/2010, una legge che, d'altronde (come scrivevo nell'articolo "Mediazione poco civile, molto commerciale"), è stata ed è propedeutica alla definizione della mentalità di gran parte degli attuali mediatori italiani di cui la stessa legge ha determinato la formazione. Poteva dunque essere altrimenti?
Una legge che vorrebbe favorire la mediazione ma che si presenta zeppa di contraddizioni rispetto ai significati profondi della mediazione, a partire da come ha predisposto e predispone la formazione dei suoi esegeti, poteva partorire mediatori che non fossero a loro volta contraddittori e che, nel loro agire (prima vera risorsa per il diffondersi di una cultura della mediazione) finissero per arrecare più danni che benefici?
Si pensi, se vogliamo aggiungere carne al fuoco (oltre la carne della qui discussa obbligatorietà), alla paradossale possibilità della proposta (art. 11) che trasforma il mediatore civile in un sorta di piccolo giudice, attribuendogli poteri decisionali che nulla hanno a che fare con l'istituito della mediazione; se poi insieme a questo mettiamo le possibili sanzioni (art. 13) in cui incorrono le parti laddove rifiutino la proposta del mediatore, allora dovrebbe apparire a tutti evidente (ma forse è un evidenza di sola mia illusione) la distanza tra mediare e questa cosa che è chiamata mediazione ma che mediazione non è, e che, invece, appare più simile al tentativo di ri-mediare, col solito pasticcio all'italiana, tra le direttive della Comunità Europea (2008/52/CE) e la necessità di sgombrare gli scranni della giustizia nostrana tanto colmi di liti da essere divenuti veri e propri dispensatori di ingiustizia.
Ma per queste profonde contraddizioni insite in questa mediazione spaghettara, i colleghi mediatori che ora piagnucolano perché gli hanno, almeno temporaneamente, storpiato il giochino, non hanno sollevato le loro lamentazioni.
E' finora mancato, cioè, quel sano processo culturale che è l'unica sola vera strada affinché questa modalità alternativa di disciplinare non la giustizia (come erroneamente da troppe parti si crede e si dice), ma il conflitto, penetri negli usi, nei costumi e nella mentalità del cittadino italiano. Il venir meno dell'obbligatorietà, nulla evira alle potenzialità "rivoluzionarie" della mediazione, anzi; e sarebbe assai paradossale che fosse un obbligo di legge a promuovere la diffusione di una disciplina che si connota proprio per la volontà di non subordinare il sapere delle persone a qualsivoglia altro sapere, in questo caso giuridico, ma non solo.
Comprendo, evidentemente, il fastidio e, voglio ribadirlo, sono assolutamente solidale con il senso di ingiustizia che vivono i tanti neo-mediatori che, dopo aver speso tempo, denaro e fatica per imparare a giocare a briscola col morto, si trovano improvvisamente catapultati al tavolo da poker senza sapere che farsene delle carte da briscola e soprattutto del morto.
Ma questo pastrocchio non è solo il segnale di una legge sulla mediazione che va totalmente ripensata, ma anche il segnale, ben più importante, di un generale rapporto con la Legge che va ripensato e di cui la mediazione per sua natura si fa carico emergendo, non a caso, in questo nostro scorcio di secolo in cui un po' tutte le discipline che fino a ieri dispensavano verità sono, in differenti modi, messe in discussione a favore di un ritorno all'incontro con la persona e alla relazione come indispensabile contributo per la costruzione non della verità, ma di quella verità che nel finito contesto di quella relazione può aiutare a generare un qualche tipi di positiva, costruttiva e collettiva evoluzione.
Mediatori e fans della mediazione approfittino dunque di questa ennesima caduta verticale della giustizia che la Legge, in una società sempre più complessa, non è più evidentemente in grado di garantire, per favorire la diffusione di quello che, alla nascita di questo stesso blog, ho definito "Diritto di relazione": prodigandosi per diffondere un vero e proprio salto culturale affinché ogni individuo si riappropri (accompagnato da adeguati dispositivi come quello della mediazione) della cura della giustizia, propria e altrui, che significa, anzitutto, imparare ad aprirsi alla legge-sapere dell’Altro per offrire la propria legge-sapere, abbandonandosi a questo rapporto dialogico che è l'unica via di accesso al superamento dell’esperienza dell’ingiustizia, superamento che solo si dà a partire dalla consapevolezza che nessuno (nessuno!) ha la piena ed esclusiva disponibilità della «Legge» ma che questa va continuamente ricercata e ridefinita con l’Altro, confrontandosi apertamente e positivamente in quello spazio tutto da riempire che non sono «Io» e non sei «Tu» e che, comprendendoci, al contempo, ci unisce e ci separa e che, affinché divenga luogo di cura e di un sano e costruttivo conflitto, deve essere continuamente rinegoziato.
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