Pubblichiamo l'intervento di Massimo Silvano Galli al convegno "Diritto di Relazione - l'avvocato tecnico della gestione del conflitto" organizzato dal Centro Italiano di Mediazione (CIM) Gruppo Firera & Liuzzo sabato 26 marzo 2011 presso l'Aula Magna Alessandrini del Tribunale di Pescara. L'intervento è tratto dall'omonimo articolo pubblicato dallo stesso Firera & Liuzzo.
Massimo Silvano Galli |
"Ma mamma, non è giusto!" dice il piccolo, strozzato dal pianto. Questa semplice e tanto comune esperienza che, tutti, da spettatori o da protagonisti, abbiamo in qualche modo vissuto, restituisce, a mio avviso, e meglio di tante elucubrazioni, il senso profondamente relativista insito nel concetto e, quindi, nelle pratiche, di quella cosa che chiamiamo «giustizia».
Il "non è giusto" di ogni bambino e di tutte le altre piccole e grandi creature (mamme comprese), non va tuttavia letto solo come una protesta verso qualcosa che il protestante vive come un'ingiustizia, ma come una vera e propria modalità di vedere, intendere e intenzionare il mondo. Il bambino, insomma, dal suo punto di vista, non ha meno ragione della mamma, ed è proprio perché entrambi hanno davvero ragione, che l'intera storia dell'uomo altro non sembra che una lotta per affermare, spesso imponendola, la verità del proprio concetto di giustizia, che è sempre (o quasi) una verità a discapito di altri che quella verità finiscono per subirla.
Insomma, ovunque lo si guardi, sembra proprio che il concetto di giustizia, lungi dall'essere un assoluto universale, restituisca, invece, il suo fondamento relativista: culturalmente e storicamente determinato, spesso inficiato da credenze dettate da insipienza o da interessi e, più che spesso, da entrambi insieme.
Ma potrebbe forse essere diverso? Un'esperienza così profondamente umana come quella della giustizia può prestarsi ad una interpretazione che non sia socialmente creata, inventata e mediata attraverso l'agire e l'interagire degli uomini, e quindi rispondente a particolarismi, soggettività, convenienze?
L'uomo è un animale capace di adattarsi a qualsiasi condizione, anche la più brutale, ma non sopravvivrebbe ad una condizione a cui non riesce a dare un senso, anche a costo di inventarselo. Per questo noi umani ci operiamo costantemente per produrre forme di conoscenza, ossia per cercare di dare senso alle cose che, però, una volta dotate di senso, spesso ci appaiono come verità apparentemente inoppugnabili, non perché lo siano, ma perché ne smarriamo l’origine storico-sociale che le ha determinate.
Vorrei fare solo un breve esempio tra i tanti possibili per cercare di sostenere le mie riflessioni.
La recente introduzione di sofisticate tecnologie in grado di monitorare le modalità con cui il nostro cervello processa dati e operazioni, pare stia addirittura mettendo in discussione il concetto di “libero arbitrio” dimostrando come le nostre scelte potrebbero non essere affatto nostre.
Molto sinteticamente, questi studi sembrano avvalorare l’ipotesi che il cervello, in molte occasioni, decida, per così dire, prima di ogni nostra decisione. Già oggi, ad esempio, monitorando una particolare area del cerebro (l'area 10 di Brodmann, per la precisione), siamo in grado di predire una serie vastissima di comportamenti alcuni secondi prima che il soggetto agente sia consapevole di ciò che andrà a fare.
Se, dunque, una lettura relativista mette in discussione una qualsiasi idea universale di giustizia, le recenti osservazioni neurobiologiche rischiano di mandare a carte e quarantotto l'idea stessa di giustizia. Infatti, se non sono io a decidere, se non ho libero arbitrio, come posso essere punito? Solo la presenza del libero arbitrio dà valore e senso (anche etimologicamente) alla conseguente presenza di un arbitro.
Paradossi, certo, almeno finché la scienza non ridurrà la nostra ignoranza in questa materia, poi ci troveremo a rifondare il diritto o, più probabilmente, come nel bel racconto di Philip Dick, ("Minority Report") cercheremo di sfruttare questa conoscenza per prevenire il crimine anticipando la giustizia al reato, con risultati, come da racconto, disastrosi.
Tuttavia, senza aspettare che arrivi come al solito la gaia scienza, potremmo forse riflettere già da ora su una concezione altra del diritto che sappia tenere in più adeguato conto, almeno laddove è possibile, la natura relativista che condiziona e disegna le forme della giustizia. Ma non solo.
La giustizia, infatti, e, soprattutto, la domanda di giustizia, non è solamente un concetto legato alle epoche, alle società, alle culture e alle strutture di potere di cui poi diviene espressione ma, ridotta ai minimi termini, la domanda di giustizia è, anzitutto, il contraltare logico e, in qualche modo naturale, dell'esperienza dell'ingiustizia.
L'ingiustizia è un'esperienza intimamente umana, non sopprimibile, legata al concetto stesso di alterità che ci pervade, ossia al fatto che tutto ciò che non sono io, si presenta come "altro", come diverso, come non identico. Insomma, a discapito del nostro essere animali sociali, ci muoviamo sempre tra i meandri angusti delle nostre case psichiche e ciò che vediamo e proviamo ha, in prima istanza, un carattere tendenzialmente soggettivo.
Vi è dunque un’opera dei sensi e del cervello che non corrisponde a ciò che percepiamo come realtà, perché ogni nostra percezione è, di fatto, un processo attivo, anzi, ricreattivo.
Vediamo quello che possiamo e vogliamo vedere e, a seconda della nostra vista, attribuiamo valori, credenze, senso, ragioni e torti.
Ma non sono solo le nostre percezioni a fare del mondo che sta là fuori qualcosa che somiglia molto di più ad un'opera di fantasia che a quella cosa che crediamo essere la realtà..
Tra i tanti nostri bellissimi umani difetti, non c'è solo la capacità di ricreare il mondo mentre lo percepiamo, per così dire, al presente, ma anche la nostra facoltà di immaginarlo per come lo desideriamo, ossia al futuro.
Questi due elementi, agendo separatamente o insieme (più spesso insieme), definiscono, a vari livelli, le nostre esperienze di ingiustizia, configurando come non giusto tutto ciò che, diverso da me, sfugge alla mia ricostruzione del presente e alle mie proiezioni e, quindi, aspettative del futuro.
In questo senso, l'esperienza dell'ingiustizia non può essere eliminata ma solo, e già non è poco, affrontata, ridotta, curata.
Per quanti sforzi si faccia non esisterà mai una società esente dall'ingiustizia. È, invece, possibile e auspicabile riflettere attorno a una società che non rincorra illusoriamente la fine delle ingiustizie, ma impari ad accogliere i molteplici e diversificati concetti di giustizia di cui ognuno è detentore.
Legge e giustizia, non si somigliano affatto e non sono riducibili l'una all'altra, come testimoniano molte leggi del passato, tanto lontane dalla giustizia da ritenerle oggi addirittura inumane.
Il possibile errore non è quindi cercare di normare la giustizia attraverso la configurazione di leggi che la reifichino, ma nutrire l'illusoria convinzione che l'appello alla legge porti in qualche modo alla giustizia, rifiutando invece di comprendere che, se l'esperienza dell'ingiustizia nasce, in prima istanza, dallo scontro tra la mia visione del mondo e quella dell'Altro, sarà solo nell'incontro con l'Altro che potrò forse non risolverla, ma senz’altro nutrirla di quella ragione e di quel senso di cui la psiche umana necessità per sopravvivere.
Paradossalmente, di fronte alla legge dobbiamo in, qualche modo, abbandonare la speranza di giustizia, intesa come qualcosa (o qualcuno) capace di restituirci una qualche certezza di verità rispetto alla richiesta che invochiamo.
Invece, impossibilitati ad accedere a ciò che è davvero «giusto», abbiamo escogitato complesse metodiche procedurali volte a produrre quella mistificazione che va sotto il nome di «verità processuale», pallido riflesso dell'idea di giustizia.
La giustizia e, più dettagliatamente, il diritto con le sue diverse norme, non dovrebbe alimentare speranze ma, più adeguatamente, essere intesa e promossa come un media, un medium, la cui funzione è quella di tradurre il non senso che ci circonda trasformandolo in qualcosa capace di dare senso alle nostre vite nell’unico modo possibile e immaginabile: cercare insieme all’Altro la verità che ci completa.
Così come si configura, invece, la legge, non sembra capace di risolvere la sua distanza da ogni individuale esperienza di ingiustizia, poiché accogliere l'Altro con le sue ragioni significa inevitabilmente aprirsi a un qualche tipo di contaminazione.
Affinché qualcosa ci contempli, infatti, affinché ci faccia davvero entrare, deve aprirsi alla possibilità della domanda, dell’interrogazione, del cambiamento, in una parola del nostro sguardo trasformatore. Questa è l'ambiguità della legge che rende impossibile la cura dell'ingiustizia: nutrire la speranza di dare un senso al mondo, ma non essere capace di aprirsi alla necessaria contaminazione della verità del singolo, l’unico capace di legittimare quel senso, soprattutto quando lo vive in prima persona.
Tutte le discipline che in qualche modo si predispongono a prendersi cura dell’Altro stanno arrivando alla conclusione che ogni processo che intenda raggiungere una qualche forma di verità necessita di essere continuamente messo alla prova di una negoziazione che coinvolga gli stessi soggetti protagonisti della verità che si va cercando, ripristinando, così, il confronto della relazione.
Affinché qualsiasi norma, qualsiasi legge, si faccia possibile interprete della giustizia, possibile cura dell'ingiustizia, dobbiamo, allora, ancora una volta, entrare necessariamente nel campo dell'Altro, perché l'Altro è la mia legge: il s/oggetto che infrango nel tentativo di imporre il mio desiderio, e solo comprendendolo nella sua pena posso comprendere la necessità di ripararlo con la mia penalità.
È, cioè, indispensabile passare dalla logica competitiva che, davanti al rigido spartiacque della norma veste i panni di un devastante nichilismo giuridico disciplinando vincitori e vinti, ad una logica cooperativa, che ricerca la giustizia nell'unico luogo in cui può essere trovata: il dialogo e il riconoscimento dell'Altro.
Scopo di questo diritto che chiamiamo «di relazione», non è la punizione del colpevole, ma -appunto- il riconoscimento dell'Altro che passa attraverso il confronto tra chi ha commesso il torto e chi l'ha subito.
Ogni tentativo di fare giustizia che non si apre alla relazione e al confronto tra chi chiede giustizia e chi l'ha infranta, presuppone e, in qualche modo dà per scontato, di conoscere l'Altro. Tuttavia, nessuno può conoscere gli altri, ma tutti possono, invece, riconoscere gli altri e dimostrare tale riconoscimento nel modo in cui si dispongono ad accogliere la loro alterità.
Il «diritto di relazione», che qui vogliamo sostenere, auspica la possibilità, in continuità con molte esperienze similari, di una diversa gestione della giustizia in cui l’esperienza dell’ingiustizia possa essere curata andando oltre ogni indennità e sanzione precostituita: ripristinando le relazioni tra gli individui nelle loro irriducibili singolarità.
«Diritto di Relazione» significa, allora, riappropriarsi della propria capacità e responsabilità di aprirsi alla legge-sapere dell’Altro per offrire la propria legge-sapere, abbandonandosi a questo rapporto dialogico che è l'unica via di accesso al superamento dell’esperienza dell’ingiustizia.
La natura del diritto è ineluttabilmente relazionale; senza relazione, infatti, non c’è diritto, poiché verrebbe meno il rapporto dialogico che ogni diritto è chiamato a regolare. Conseguentemente, quando la relazione nelle dinamiche di concretizzazione del diritto è mortificata, è il diritto stesso a venire meno e a dover essere messo in discussione.